L'ULTIMA LACRIMA, by Anna

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renesmee89
icon7  view post Posted on 13/10/2010, 20:39






Il corpo teso, le braccia alzate, il volto stremato sul petto, le gambe livide. Il vento soffiava lieve, portandole i capelli all’indietro. Un rivolo di sangue ad un lato della bocca, quasi a colorarle le labbra. Gli occhi spenti. Se non fosse stato per l’immobilità in cui era imprigionata sarebbe caduta in terra. La sua mente non era nemmeno più lì, mentre lui la guardava inespressivo. Il cielo sembrava piangere, per loro due, per entrambi, legati ad un solo destino.
Odio. Che senso ha questa parola? Cosa nasconde in se, quali oscuri segreti occultati, quali indizi? Verginità perduta di una mente nata solo per quello, che protende a quello, quasi fosse la sua dimensione reale, quasi fosse impossibile non odiare. Eppur non ci riusciva in quel momento: come poter dimenticare tutti quei baci, le carezze, le parole che come miele lui aveva posato sulle sue orecchie, appena bisbigliate, dette di nascosto, quasi per tener all’oscuro il resto del mondo. In fondo le aveva dato ciò che lei aveva sempre desiderato, ogni sfumatura, ogni sospiro, tutto al momento giusto. Anche le lacrime. Non ci può esser amore senza sofferenza. Ogni lacrima di lei era stato anche un rivolo argentato sul volto di lui, come stelle cadenti, come la pioggia in quella notte senza luna.
Angel osservava quel corpo semi nudo posto di fronte a lui come se non lo avesse mai guardato prima, come se non l’avesse mai sfiorato in quei lunghi giorni passati assieme. Come se non l’avesse mai baciato. Le loro notti d’amore sembravano così lontane in quel momento. Lui rimaneva lì, immobile, seduto sul cornicione di quel tetto al duecento trentaseiesimo piano d’un grattacielo, in pieno centro. I suoi occhi neri la scrutavano impassibili, sorvolando quasi con leggerezza su quelle forme che ormai conosceva a menadito, sul seno pieno, sul ventre piatto o sulle gambe sode e sulla pelle bianca. Erano gli occhi di lei che cercavano, quegli occhi castani in cui per minuti interi si era specchiato senza dir una parola. La prima volta era stata sei mesi prima. Lui aveva bussato alla sua porta, alle nove di mattina, quando lei si sarebbe dovuta trovare a lavoro. Poi era rimasto lì, ad aspettare, sicuro di trovar in quella casa ciò per cui tanta strada aveva percorso. Pochi minuti, solo pochi minuti. Quando lei lo aveva visto, aprendogli, proprio lì, sulla soglia del suo appartamento, era rimasta per un attimo immobile, trattenendo il respiro. Gli occhi le si erano spalancati, eppur un istante dopo era tornata normale, comportandosi come se quella visita fosse stata qualcosa di consueto o di atteso. Se qualcun altro l’avesse vista in quel momento avrebbe potuto affermare con sicurezza che non c’era la minima traccia di sorpresa sul suo volto. Ma proprio nel primo istante, proprio quando i loro occhi si erano incrociati, qualcosa di nuovo si era insinuato sotto la sua pelle, e anche lui aveva provato la medesima sensazione. Nessuno, per più di un minuto, aveva detto neanche una parola. Ora invece erano lì, a pochi passi l’uno dall’altra, eppur tanto distanti. Angel si mosse, le si accostò, portò le proprie labbra all’orecchio destro di lei: “La mia Dukessa…”, disse piano, facendo scivolar il proprio fiato tra le labbra, schioccando la lingua, “… la mia povera Dukessa”. Poi uno schiaffo, in pieno viso, il cui eco si protrasse a lungo, prima di esser ricoperto da un lontano tuonare, annunciando un temporale che sembrava farsi sempre più minaccioso. Quel gesto improvviso sembrò rianimarla: fu come se le parole di pochi istanti prima avessero preso la spinta necessaria per essere comprese. Dukessa, perché la chiamava così? Ah, sì, è vero, era il nome che lui le aveva dato, nell’intimità di ogni notte passata assieme, nella dolcezza d’ogni risveglio tra le sue braccia. Ma perché Dukessa? La mente ritornò al passato. C’erano solo lei e Angel, distesi su di un letto dalle lenzuola nere in seta. La luce delle candele sfumava, la musica si perdeva tra sospiri e sussurri. Lei tra le braccia del suo principe nero giunto da chissà dove. “Dukessa”, le disse d’un tratto. Poi il suo sguardo passò dagli occhi di lei alla fiamma del camino acceso. Era così, ogni volta che cercava di ricordar il proprio passato, o quando frammenti di memoria tornavano alla luce, lui cominciava a fissar il vuoto, come se nel nulla pensasse di poter trovare quel che cercava. Ma la memoria non tornava, Angel continuava a non ricordare nulla. Quella notte sembrò che la parola Dukessa fosse affiorata alle sue labbra ma non per essere rivolta a lei. “Perché mi hai chiamata così?”, gli chiese. Lui riportò lo sguardo sul suo volto, notando una sottile linea di dispiacere disegnarle le labbra. Si affrettò a sorridere: ”Per il colore della tua pelle, per il suo profumo delicato, per la dolcezza del suo sapore. Per i lineamenti candidi e per le sfumature che dipingono il tuo volto… Dukessa…”. Lei non capì, ma lasciò perdere. Lo osservò soltanto mentre egli tornava ad abbandonare il proprio sguardo al vuoto. Pochi minuti dopo si era già addormentata. Non poté quindi veder il volto di Angel bagnarsi di sale, non poté udir le parole: “Mi dispiace”, sottoforma di fiato, romper la calma su di loro.
La pioggia bagnava le ferite profonde sul suo petto, la pelle lacerata bruciava graffiata dal vento, il respiro cominciava a farsi pesante. Teneva la bocca semi aperta ormai, temeva di star per soffocare. Tossiva, quando il sangue le scivolava in gola. Provò ad alzar lo sguardo, rivide ancora una volta il suo angelo in piedi di fronte a lei, impassibile. Si stupì di poter provare un dolore tanto sottile e un amore ugualmente intenso. La frusta era stata abbandonata, poco più in là. Guardò meglio, ma quel che le stava attorno non diveniva più nitido, né più felice. Le lacrime ormai erano scese, come un velo, mimetizzandosi con la pioggia. Desiderava veder un ultima volta i suoi occhi. Sapeva di stare per morire, ma che importanza aveva se lo faceva per mano della stessa persona che l’aveva riportata alla vita? Chiuse gli occhi. Ad un tratto non c’era più quel tetto grigio, né le nuvole violacee sulla sua testa. Perse i sensi.Viveva in un appartamento, dall’affitto più basso di tutta la città. Vi viveva da quando aveva deciso di lasciar la casa dei suoi genitori, sei anni prima, appena diciottenne. Il proprietario era un suo amico d’infanzia, poteva rimanere quanto voleva, le aveva assicurato. Sopravviveva grazie a lavoretti saltuari, che per fortuna non mancavano mai. In più sua madre le mandava ogni mese una piccola somma in denaro, di nascosto, senza farlo saper a suo marito, che con quella piccola egoista non voleva più aver nulla a che fare. In effetti, la sua vita non era poi così male. Eppur era sola. Lo era sempre stata. Un adolescenza passata nel proprio mondo, escludendo il resto, i genitori ossessivi, le amicizie insignificanti. Poi via, appena ne aveva avuto la possibilità, via per sempre, tentando di sfuggir alla propria realtà ma rimanendone incatenata. Indissolubilmente legata al suo passato. Ma non pregava, non chiedeva nulla. Restava zitta per ore invece, ad aspettare. Sapeva di stare per perdersi.
Quella mattina, sei mesi prima, aveva deciso di non presentarsi a lavoro. L’avrebbero licenziata, ma che importanza aveva. Sei mesi prima il fato aveva già deciso per entrambi.
Angel le afferrò il volto tra le mani. Non poteva permettere che si addormentasse. Il primo schiaffo arrivò sulla guancia destra di lei, arrossandogliela. Il secondo sulla guancia sinistra, facendole voltar di scatto la testa. Si riebbe. Alzò gli occhi, si accorse che non si trattava di un sogno. Lui era lì, l’aveva svegliata, come ogni mattina, ma questa volta non c’era il sole che si insinuava in camera da letto tra le persiane leggermente scostate. Non c’era un bacio, né un sorriso triste, quel sorriso che tanto aveva amato baciare. Gli occhi neri e duri di lui le provocarono una ferita ancor più profonda di quante già ne aveva su tutto il corpo. Fu come se il suo cuore cominciasse a sgretolarsi.
Lui pensava solo: “Presto tutto questo dolore sarà finito…”. Ormai la memoria gli era tornata quasi completamente, mancavano solo piccoli tasselli, anche se in quel momento ricordare non gli sembrava più così importante.
Si era ritrovato in quella città sette mesi prima. Si era svegliato, privo di memoria, tra la spazzatura, semi nudo. Ma non stanco, ne ferito. Nello stesso vicolo vi aveva passato quasi un mese, tra giornate calde cercando di nascondersi ai passanti e notti insonni o deliranti. Incubi terrificanti si sostituivano alla veglia, scene di cui lui era il protagonista ma che non ricordava di aver vissuto realmente. Spesso erano ambientate in altre epoche, forse in un altro mondo. Solo una cosa era ricorrente, in quei momenti apparentemente privi di senso. Lei. Una donna, bellissima, come forse non ne esistevano nella realtà. Due occhi castani che sentiva scolpiti nella propria anima, un sorriso macchiato di rosso a cui non riusciva a non pensare. Dopo due settimane passate a chiedersi chi fosse e cosa ci facesse lì era arrivata una voce. La sentiva ad ogni alba e ad ogni tramonto, una voce silenziosa che non pensava di conoscere. Era stata la voce a condurlo quel giorno da lei.
In un istante tornò alla realtà. La notte si avviava alla sua conclusione e lui doveva affrettarsi. Ma perché ancora non lo odiava? Guardò per un attimo la città, immensa sotto di loro. Quante volte l’avevano scrutata assieme, all’alba, colorarsi di rosso, cancellar con un gesto le stelle e la luna e prender possesso del cielo? Ed era l’alba che attendeva anche sta’ volta, la loro ultima alba assieme.
“Dukessa…”, sospirò di nuovo, ma Dukessa non lo guardava nemmeno più. Riprese la frusta, colpì con più forza di quanto avesse fatto in passato, lei gemette ancora, ma sembrava si stesse abbandonando. Perché provar pietà? In fondo era sua la colpa se soffriva così tanto. Era stata lei a condurlo su quel mondo. Lui non era mai esistito prima, se non nei sogni di Dukessa, celato da desideri e lacrime, sorrisi e preghiere. Ma Dukessa, chissà come, era riuscita a materializzarlo, a dargli una vita propria. Lui non era fatto per quella realtà. Angel, come lo aveva chiamato lei, dato che lui il suo vero nome non lo ricordava, soffriva troppo in una vita a cui non era adatto.
Lei, incontrandolo per la prima volta sulla soglia della propria porta, l’aveva invitato ad entrare. Poche parole, molto silenzi imbarazzati. Lui aveva deciso di dirle subito la verità, le rivelò subito che non conosceva il perché si trovasse proprio lì. Le raccontò di averla sognata, di averla trovata poi quasi per caso. Le aveva detto che pensava che forse lei avrebbe saputo spiegargli chi in realtà egli fosse. Ma non era stato così. Dukessa però gli aveva subito chiesto di rimaner a pranzo prima, poi a cena. Non lo temeva, e non poteva permettere che andasse via, le sembrava di conoscerlo da sempre. Angel, decise di chiamarlo, perché come un angelo nero e senz’ali si era affacciato alla sua soglia rapendola dalla solitudine.
Angel non sapeva davvero per quale motivo fosse andato da lei, quel giorno. Ma dopo quell’incontro lentamente i ricordi gli erano incominciati a riaffiorare. E quella voce, ogni mattina, gli raccontava qualcosa in più. Ben presto Angel aveva capito cosa doveva fare per romper il dolore che lo imprigionava in quel mondo, per negar la tristezza e la malinconia.
Era stata lei la causa di tutto. Ma col tempo, passandole mesi interi affianco, aveva sentito qualcosa nascergli dentro. Dukessa, come l’aveva chiamata quella notte, aveva inconsapevolmente usato i propri poteri latenti per portare lui, null’altro che un sogno, lì dove lei era sola. E i ricordi che aveva, tra sogni e deliri, non erano altro che fantasie, quelle che lei aveva avuto sin da adolescente. Ma era arrivato il momento che quella tortura finisse.
Le sollevò il capo, si insinuò tra i suoi occhi e il vuoto che contemplavano. “Non eri nulla per me, ti ho solo mentito. Ogni promessa, ogni parola sussurrata al suo orecchio, ogni bacio rubato di notte, non erano altro che immense bugie dette per portarti sin qui, dove io volevo che tu arrivassi. In realtà non sei altro che una cagna…”. Non pensava davvero quelle cose, ma la luna era ormai vicina al tramonto e lui doveva giocarsi il tutto e per tutto. Dukessa, a quelle parole, tornò in se. I suoi occhi si rivitalizzarono, guardò il tuo persecutore e bisbigliò, mentre un’ultima lacrima lasciava per sempre i suoi occhi: “Ti odio…”.
Finalmente. Angel perdette tutta la sua freddezza in un istante, quella sua indifferenza che si era imposto come maschera. Dukessa era lì, le braccia incatenate ad un perno, le gambe al pavimento. Tesa lì di fronte a lui, finalmente lo odiava. Era quello l’unico modo per fuggir alla terribile realtà in cui lei lo aveva inconsapevolmente trascinato. Le si avvicinò, fino a sfiorarle il volto, sino a che le sue labbra non si posarono su quelle di lei. La baciò, e nello stesso istante la lama che impugnava con la mano destra si conficcò nella schiena di lei. Il cuore le fu trafitto. Così, mentre due ultime gemme d’argento scivolavano sul suo volto, mentre lei si spegneva bagnata dalla luce dell’alba, il corpo di Angel cominciò a dissolversi, come fosse nebbia, perdendo la propria consistenza e consumandosi, finché di lui non rimase altro che l’eco delle parole ti amo.
 
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_masayume4ever_
view post Posted on 23/10/2010, 16:54




Che bella! ^^
L'hai scritta tu??
Raccontaci qualcosa!
 
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renesmee89
view post Posted on 23/10/2010, 23:43




si, mi piace scrivere ora stò scrivendo una ff su di me
 
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_masayume4ever_
view post Posted on 24/10/2010, 22:34




Bene!!
Postala mi raccomando! ^^
 
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3 replies since 13/10/2010, 20:39   44 views
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